“Napoli è molto di più di ciò che finora si è detto sulla tragica vicenda di Davide!”

Nella notte tra il 4 e il 5 settembre, a Rione Traiano, zona nel sud-est di Napoli, Davide Bifolco, 17 anni, ha perso la vita. Stava scappando dai carabinieri, non avevano il casco né il patentino né l’assicurazione e non aveva rispettato l’alt intimato dalla volante. A uccidere Davide, dopo l’inseguimento conclusosi con uno speronamento, è stato un colpo di pistola che, secondo la ricostruzione dei carabinieri, sarebbe stato esploso in maniera accidentale dal giovane ventiduenne dell’Arma che l’aveva bloccato. «Non sono un Rambo, è stato un incidente», ha detto. «Sono addolorato. Con pudore voglio chiedere alla famiglia di Davide perdono. Consapevole che niente e nessuna parola potrà attutire il dolore, che segnerà per sempre anche la mia vita».
La reazione della madre e del fratello è stata di rabbia e dolore. Mentre al corteo del giorno dopo per le strade del Rione sono stati scanditi cori come: «Lo Stato non ci tutela» e «assassini con la divisa». Nell’attesa che la giustizia faccia il suo corso e i fatti siano appurati, tempi.it ha chiesto ad Antonio Romano, ingegnere ed educatore, vicepresidente della Fondazione Romano Guardini, ente morale senza scopo di lucro impegnato nell’opera di educazione e istruzione dei giovani di Napoli, un giudizio sull’intera vicenda.
Romano, come ha reagito alla notizia della morte del giovane?
Il primo sentimento è una tristezza e una pietà sia per il ragazzo ucciso sia per chi ha sparato. Il male ritorna puntualmente, e puntualmente un mare di commenti inutili. A me, invece, è tornata in mente, dentro la tristezza, la gratitudine per l’amicizia e il tentativo di conoscenza che quest’anno ho fatto insieme a un gruppo di giovani di cui uno, Enrico, di fronte al triste fatto di cronaca ha detto: «Anche io, sono certo, avrei fatto, e tutt’ora farei, una brutta fine senza di voi». Perché un’amicizia alla ricerca del vero è fondamentale in un contesto come quello di Napoli, dove ogni giorno è una lotta per il bene da vivere, per essere uomini veri e liberi, una lotta ogni volta da accettare. In questa città, infatti, è facile che l’ingiustizia e l’abitudine, la routine e la noia, nella quotidianità, prendano il sopravvento. Sono tantissimi i giovani che conosco che potrebbero tranquillamente arrivare a girare di notte con un motorino, senza casco e senza una meta ragionevole alla merce degli squali della camorra. Ad alcuni, però, è accaduto e accade di incontrare uomini liberi che hanno attratto il loro cuore, offrendo una strada ragionevole, non senza fatiche, per resistere al male quotidiano che in certi quartieri richiede un vero eroismo.
Rione Traiano è una zona pericolosa?
A Rione Traiano ci passo ogni giorno, perché lavoro nei pressi del quartiere. Qui c’è il 70 per cento di disoccupazione, analfabetismo imperante, tante famiglie che vivono negli scantinati e una criminalità che si nutre di disperazione e bisogno sociale. Purtroppo, è facile che accadano tragedie del genere. Come è anche vero che in questa situazione di disastro sociale, spesso, sono le forze di polizia, in solitudine, a contrastare gli affari della criminalità. Ciò che è accaduto è un fatto drammatico, sia chiaro, e interroga ciascuno, innanzitutto noi che abbiamo deciso di rimanere in questa città, dentro tutte le sue contraddizioni, di costruire qui le nostre persone e di far crescere i nostri figli. Un dramma che ci interroga ora sulle vere ragioni per rimanere. Le ragioni per cui vale la pena vivere e lottare in luogo abbandonato da tutti, prima di tutto da coloro che oggi parlano di questa città e dei sui drammi, come quello dell’altra sera.
Tra i commenti ha fatto discutere quello di Luigi Bobbio, per anni pm anti-camorra a Napoli, che ha usato parole dure dicendo: «La sola vittima è il carabiniere», «vittima del suo senso del dovere e di essere chiamato a operare in una realtà la cui mentalità delinquenziale e la inclinazione a vivere violando ogni regola possibile è la normalità». Mentre di Davide ha detto: «L’identikit del bravo ragazzo una volta era ben diversa da quella che oggi qualche sprovveduto vorrebbe appiccicare al morto dell’altra notte». «A 17 anni si è uomini fatti e gli uomini sono responsabili delle loro scelte, delle loro azioni, dei loro stili di vita». È esagerato?
C’è del vero in queste dure parole, ma anche alcune esagerazioni, credo volute dallo stesso Bobbio per creare un’iperbole. Napoli prima di tutto è stata abbandonata dallo Stato, dalle istituzioni, dalla politica. Ma è anche vero che il popolo napoletano già da tempo ha gettato la spugna, come diceva Pasolini negli anni ’60, ritirandosi in una “riserva” e aspettandosi dall’alto la soluzione, che, però, non potrà mai esserci se non attingendo a tutte le risorse umane e culturali della città. Tutto ciò, lo dico non a partire dalle “baggianate” o i luoghi comuni che così spesso si sentono sui napoletani, ma perché ogni tentativo di mediazione, dalla scuola alla politica, è stato gestito da un potere centralizzato che mai ha veramente valorizzato i tentativi che dal basso chiedevano di emergere. E ha distrutto il territorio in modo criminale, come nel caso delle fabbriche siderurgiche degli anni ’70 costruite a Bagnoli su una delle spiagge più belle al mondo. Senza parlare poi dello scempio della gestione rifiuti…
Di cosa ha bisogno la città?
Occorrono “più società e più Stato”, ma senza che ciò resti uno slogan. A Rione Sanità, dove vivo, per esempio, c’è una rete di 16 associazioni che di fatto assicurano servizi fondamentali alle persone e che fanno da argine reale all’aumento di criminalità adolescenziale. Queste stentano a sopravvivere e sono abbandonate delle istituzioni. Senza sostenere queste realtà a cosa può servire una pattuglia di due soli giovani carabinieri a presidiare con un posto di blocco i rioni più difficili, come quelli menzionati? Certo, qui si è uomini molto prima dei 16 anni e con grandi capacità personali e quindi di responsabilità. Di conseguenza, anche a 12 anni un ragazzo napoletano deve fermarsi all’alt di un carabiniere che il più delle volte proviene da ambienti poveri del Sud.
Ha ragione Bobbio a dire che «giustificazionismo, buonismo, perdonismo e pietà non solo non servono a niente ma aggravano il male»?
Bisogna prestare attenzione. Da un lato, c’è il dramma di una mamma che ha perso il proprio figlio a 17 anni, ma dall’altro c’è il dramma di un uomo che si vede sconvolgere la vita da un episodio di cui mai avrebbe voluto esser protagonista, tanto che ha chiesto perdono. Si fa presto a tracciare la linea dei buoni e dei cattivi. Il manicheismo non è la soluzione al dramma umano delle persone né tantomeno ai problemi che devono essere affrontati. Certamente un dramma come questo non può essere l’alibi per giustificare tutto, o peggio ancora per gettare discredito sulle forze di polizia che, spesso, lasciate sole, sono costrette ad affrontare situazioni difficili. Bisogna innanzitutto dire “no” all’odio, da qualunque parte venga, per non fare il gioco di chi delinque.
Dei giovani di Napoli si dice e si scrive di tutto. Chi sono veramente e cosa si deve fare per loro?
Napoli è piena di giovani. È una delle città più giovani d’Italia, nonostante in molti siano costretti ad andarsene. Circa 500 mila napoletani, infatti, di cui tantissimi giovani, sono andati via da Napoli e provincia negli ultimi dieci anni. Non si può vivere in un posto se si perde la fiducia e la speranza. Conosco tantissimi ragazzi dei quartieri più difficili di questa città e le loro famiglie povere ma oneste. A queste occorre dare risposte non demagogiche ma essenziali. Adesso siamo a un punto limite. Lo Stato, le istituzioni devono decidere se davvero vogliono occuparsi di questa emergenza dando strumenti che possano creare opportunità per rinascere e rimettere in moto un processo di riscatto, oppure attendere che si calmi la tempesta, tanto tra qualche giorno ci sarà altro di cui parlare e con cui riempire le pagine dei giornali. Ma attenzione, la situazione è esplosiva e riguarda tutta l’Italia. Non può essere rimandata oltre. Occorre chiedere al Governo di aprire un tavolo di lavoro straordinario per i giovani di questa città, i cui attori siano, oltre alle istituzioni, le tante realtà che già si assumono responsabilità per il bene della città.
In un suo intervento al Meeting di Rimini del 2007 raccontava di don Luigi Giussani che, viaggiando sulla tangenziale, diceva di percepire come un «timore, un tremore», guardando Napoli. Ma diceva anche che Napoli è una città che ha un «cuore grande, una grande umanità». Come tirarla fuori dai giovani che descrive?
Da don Giussani ho imparato che la fede è un’ipotesi con cui guardare la realtà, non con cui girare lo sguardo e far finta di niente. Quella volta Giussani aggiunse: «Qui c’è una grande umanità che va educata». Da quella sfida è nata una storia. Abbiamo imparato ad esserci, a non rinunciare, a rischiare una proposta in tutti gli ambienti. Una «grande umanità» per quale abbiamo deciso di rimanere e di continuare a lottare, lieti. Tanti ragazzi si sentono dire: «Non vali nulla, non andrai mai da nessuna parte». La criminalità li recluta e li fa sentire qualcuno, affidando loro compiti delinquenziali e anche qualche soldo, spesso briciole. Le belle parole e i discorsi non portano via i ragazzi alla camorra. Occorre molta educazione, molta amicizia, molta paternità. Non solo la legge, non solo lo Stato. Ma una realtà diversa capace di accogliere, capace di aiutare a crescere e capace soprattutto di educare. Valorizzare e dare spazio a queste realtà è compito della politica e delle istituzioni. Occorre costruire luoghi educativi in cui sia possibile vivere per tutti. Ma occorre anche più Stato che garantisca la possibilità di vivere onestamente, che dia un presente di sicurezza ed un futuro di speranza. Con buona pace dei tanti predicatori che vivono lontano da Napoli.
Antonio Romano - Fondazione R.Guardini
Articolo pubblicato sul settimanale Tempi

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